Dove non arriva il nostro sguardo arriva la nostra immaginazione o, meglio ancora, il nostro immaginario, che nel breve o lungo frangente di vita abbiamo costruito tramite una moltitudine di aspetti che vanno dalle nostre esperienze individuali immerse all’interno di un continuum collettivo e partecipativo, sino alla nostra capacità del voler sentire e percepire determinati fatti non così come sono ma così come a noi appaiono.
Dove non arrivano i nostri occhi, arrivano, per quanto riguarda la costruzione e la strutturazione di un’opinione, una miriade di voci fuoricampo che come il canto di una sirena ci attirano al fulcro nevralgico di un mistero che facciamo fatica ad identificare nell’immediato e che poi tendiamo ad immagazzinare entro compartimenti stagni per placare il nostro senso di insicurezza e di timore verso il nuovo.
Nella natura antropogenica della strutturazione dell’opinione pubblica mettiamo in gioco e a repentaglio tanti, anche troppi, processi emotivi e biologici in maniera del tutto involontaria, quasi inconscia. Ci muoviamo all’interno di territori inesplorati con gli stessi mezzi che usiamo nel quotidiano e finiamo per interpretare processi a noi lontani come se quasi ci appartenessero da sempre. Ripeto, pratichiamo ed operiamo nell’ignoto, brancoliamo nel buio delle nostre insicurezze utilizzando le stesse pratiche mentali di ogni giorno. Non viaggiamo mai disarmati di tutto ciò che ci ha sempre costituito in quanto tali, in quanto esseri umani. Non viaggiamo mai da soli, anche se poi nell’atto pratico lo siamo.
La complessità del nostro essere è il primo presupposto che si deve tenere in estrema considerazione quando si parla della formazione di un’opinione, in questo caso dell’opinione pubblica. La complessità del contesto storico, economico, sociale, e culturale in cui abitiamo è il secondo. Walter Lippmann, nondimeno, introduce il discorso intorno all’opinione pubblica raccontando di un episodio di vita del passato.
Era il 1914.
Uomini e donne di nazionalità inglese, francese e tedesca condividevano le loro giornate in estrema sintonia all’interno di un’isola dispersa nell’oceano, in grado di ricevere notizie dal mondo esterno solo ogni due mesi. Due mesi trascorsi svolgendo le loro vite e comportandosi da amici, non sapendo che dall’altra parte del mondo, in Europa, queste stesse parti erano in lotta. Era arrivata la prima grande guerra, e solo dopo più di sei settimane era arrivata a loro la lettera che preannunciava questa disgrazia, la loro disgrazia. Questo stesso episodio può essere applicato in ogni contesto, in ogni singolo pezzo di mondo e di vita in cui gli individui non godevano degli stessi mezzi di comunicazione di cui ci nutriamo adesso. La celerità delle notizie non si adattava alla celerità degli eventi e la celerità degli eventi stessi non rispecchiava le singole vite vissute dagli individui in ogni parte del mondo:
«C’era stato un momento in cui l’immagine di un’Europa dove gli individui continuavano a dedicarsi alle proprie faccende non corrispondeva in alcun modo all’Europa che stava per mettere in subbuglio le loro vite. Ciascuno per qualche tempo si era sentito ancora legato a un ambiente che in realtà non esisteva più.»
Un ambiente aveva cessato di esistere per gli altri, non per loro che ancora lo abitavano.
Il modo in cui ci approcciamo alla realtà è molto più indiretto ed implicito di quanto noi possiamo pensare. Il posto che viviamo, di cui abbiamo un’immagine fervida – o simulata – non sempre corrisponde al reale ma continuiamo a comportarci come se questa lo fosse, come se la rappresentasse a pieno.
Le notizie, oggi, giungono a noi in maniera sicuramente diversa. Non sortiamo l’attesa sofferente dell’arrivo delle navi o di alcun cablogramma come nel lontano Novecento. La velocità della fruizione alle informazioni e, di conseguenza, all’ambiente in cui viviamo ha cambiato decisamente ritmo, l’arco temporale è racchiuso in un click.
L’avvento di Internet, che si voglia porre nel 1969 con il primo collegamento interuniversitario o nel 1991 con la nascita del World Wide Web, ha in maniera irrefrenabile e inarrestabile cambiato l’assetto delle cose, e stravolto, soprattutto, il modo in cui percepiamo l’ambiente circostante. A mutare drasticamente non è stata soltanto la componente temporale, che si è particolarmente ridotta, ma è stata anche la componente visuale che si è inversamente estesa a quasi ogni centimetro percorribile del pianeta Terra.
L’accesso immediato ad Internet e alla piazza virtuale dei social media ci ha donato il potere di poter cogliere nello stesso istante, o all’interno di un lasso temporale eccessivamente limitato, un gran numero di notizie, fatti, idee ed immagini provenienti da posti a noi lontanissimi, che possibilmente non abbiamo mai visto e mai visiteremo. Il nostro raggio visivo e il nostro raggio d’azione a riguardo è raddoppiato, se non triplicato, quadruplicato e così via. Ora partendo dal presupposto che noi costruiamo il nostro mondo attraverso l’idea e l’immagine che abbiamo di esso e che le nuove tecnologie, i nuovi mezzi, ma soprattutto i social media riescono a smaterializzarci e a portarci ogni dove, la nostra opinione riguardo i fatti fuori dal nostro campo visuale effettivo è condizionata dalle voci fuoricampo di persone e posti mai conosciuti, e a volte anche inesistenti.
La piazza virtuale ed inter ed iper connessa dei social media rappresenta lo pseudo-ambiente di cui parla Lippmann, ovvero, un terreno fertile e mutevole che si scaglia e vi è tra l’ambiente effettivo e l’individuo stesso.
All’interno di questo pseudo-ambiente social vengono condivisi pensieri, espressi appunti o disappunti riguardo le tematiche più calde del momento, postate immagini, video, rappresentazioni esterne che entrano nel nostro quotidiano e hanno un certo tipo di effetto. Il modo in cui poi estrapoliamo le informazioni, decidiamo in che modo e cosa recepire da queste ultime, costruiamo il nostro pensiero e la nostra immagine al riguardo ci porta ad avere un’opinione che ci fa reagire nel reale non per quello che effettivamente è ma per quello che pensiamo possa essere. Il comportamento dell’individuo, dice Lippmann, «è appunto una reazione a questo pseudo-ambiente. Ma dato che è un comportamento, le sue conseguenze, se si tratta di atti, non operano nello pseudo-ambiente nel quale è stato stimolato, ma nell’ambiente reale nel quale l’azione accade».
Questo significa che la realtà che percepiamo tramite ciò che viene espresso all’interno delle piazze virtuali, i meccanismi che usiamo per estrapolare da questi ultimi le informazioni che convertiamo poi in immagini nella nostra mente hanno una presa ed un’azione decisiva nella realtà fattuale. Quello che pensiamo possa essere vero mediante un’induzione indiretta dall’esterno ha poi conseguenza nel reale.
Continuando la lettura di Public Opinion, mi sono imbattuta in un passaggio che mi ha dato molto su cui pensare. L’autore riprende un racconto di Pierrefeu e della visita di un fotografo a Joffre, generale francese di indubbia popolarità sino alla battaglia decisiva di Verdun, il quale scrive e descrive questa azione:
«Il generale stava nel suo ufficio di aspetto borghese, davanti al tavolo completamente sgombro dove era solito mettersi per firmare i documenti. Improvvisamente si notò che non c’erano carte geografiche, si provvide a sistemarne lì per lì alcune, che vennero tolte appena il fotografo ebbe finito.»
Più di un secolo fa si ragionava già con gli stessi principi estetici ed illusori che sono propri di uno dei social network più in voga del momento, Instagram, dove intere e giornaliere homepage patinate contribuiscono in maniera determinante a stabilire standard ed aspettative di vita fuori dal normale, anzi, che non riproducono ciò che effettivamente è normale. O almeno non sempre.
In questa sede lo chiameremo principio di instagrammabilità, ovvero tutto ciò che risponde in maniera positiva alla domanda: questo oggetto, questo posto è instagrammabile?
Rispondere alle esigenze del trend del momento significa mobilitarsi affinché si possa ricreare un ambient fittizio – con tanto di set, luci e lucine natalizie anche se è Agosto – per immortalare un momento che in realtà non esiste, ma essendo che soddisfa un principio estetico che è proprio di quest’ultimo e che confluisce a far sì che questo possa rimanere e non passare di moda, viene non solo simulato ma addirittura emulato dai più, appiattendo non solo il contenuto stesso ma il significato intrinseco del messaggio che automaticamente si annulla perché diventa pure esercizio di stile se non di cura del profilo, non personale, ma pubblico. Da qui la comunissima e acclamatissima frase “X ha un profilo curato”. Da qui l’asserzione di Derrick de Kerckhove, il quale riprende la massima del suo maestro McLuhan, affermando che, oggi, “il network è il messaggio”.
Il processo di destrutturazione e di ricreazione di una realtà simulata a cura e desiderio dell’utente sta generando all’interno dello stesso pseudo-ambiente dei social media un movimento di profili interni – ma anche esterni al sistema – per cercare di riportare la normalità alla sua vera essenza, dato che gli standard sui generis dettati adesso dalla stessa società non sono più quelli inerenti alla realtà effettiva ma a quella che attecchisce all’interno dei social media.
Profili interni e pubblici su Instagram dai più ilari ai più impegnati come Normalize Normal Homes, Factanza, Tlon, Foto inutili Zara, che contano mila e mila followers, hanno come comune intento e principio determinante proprio questo: riportare la normalità al suo stato d’ordine.
Vi è in atto uno stravolgimento di pensiero quando si pensa alla realtà che viviamo rispetto a quella che rappresentiamo. Le dinamiche dei social media, della nuova comunicazione digitale hanno capovolto le modalità con cui ci approcciamo al quotidiano, alle vie e ai corpi che abitiamo, ai luoghi che conosciamo, ai posti e le persone che frequentiamo. Nascondiamo i pregi, filtriamo le imperfezioni e tramutiamo ogni singolo processo naturale e “difettoso” in qualcosa di perfettamente costruito.
Quando si pensa alla formazione di un’opinione, dell’opinione pubblica non dobbiamo dimenticarci che esiste uno schema, un preciso rapporto triangolare che, nel nostro caso – quello della comunicazione veicolata tramite social media – vi è tra la scena dell’azione effettiva postata, pubblicata e condivisa, la rappresentazione che l’individuo si fa di quest’ultima mediante il processo di visualizzazione e le reactions – like, dislike, retweet, follow e defellow – che esso attua nel virtuale, e che poi, a sua volta, riopera indiscutibilmente in maniera pratica e decisiva nella reale scena d’azione, nella realtà fattuale.
In breve, non dobbiamo dimenticarci che esistiamo in due ambienti, più o meno visibili, sino a quando uno dei due non cessa di esistere.
Riferimenti bibliografici:
-
Walter Lippmann, L’opinione Pubblica, Roma, Donzelli Editore, 1999.
-
Pierrefeu, G. Q. G. Secteur 1 cit., p. 99.
-
Derrick de Kerckhove, Antonio Tursi, Dopo la democrazia? Il potere e la sfera pubblica nell’epoca delle reti, Milano, Apogeo, 2006.